da Veronica C. Bertarini | Dic 27, 2022 | MENTAL COACHING
Duro allenamento, sacrifici per realizzare i propri sogni, impegno, forza e determinazione, voglia di spingersi oltre i propri limiti: questo rappresenta il mondo di un atleta. Ma quando tutto questo finisce?
Quando Alice Canclini mi ha chiesto di intraprendere un percorso di mental coaching credo che in cuor suo avesse già deciso di lasciare la carriera agonistica, solo che ancora non lo sapeva. Abbandonare, se così possiamo dire, quello che si è fatto per una vita intera, può essere infatti fonte di confusione, smarrimento e incertezza, anche quando la scelta è totalmente personale.
Confrontarsi in questi casi aiuta a mettere tutta questa confusione nero su bianco, a fare ordine e a trovare nuove risorse per intraprendere nuovi cammini.
Bisogna fare i conti con un nuovo io che non si conosce ancora.
Chi sono?
Cosa so fare di altro?
Se scelgo di smettere la carriera agonistica quali benefici perdo? Come cambierà la mia vita?
Queste sono solo alcune delle più probabili domande che attraversano la mente di uno sportivo che ha deciso di voltare pagina.
In questo articolo affronto a livello generale la tematica in oggetto, partendo dal presupposto fondamentale che ogni persona è differente ed ognuno ha, come vedremo, il proprio percorso.
Per molti anni l’ esperienza della pensione sportiva è stata definita una “transizione”, suggerendo l’ idea di un evento facile da affrontare. Nonostante in alcuni casi questo possa essere effettivamente vero, per molti atleti purtroppo la fase di abbandono della propria carriera costituisce un evento critico e difficile da accettare. Per molti professionisti il ritiro è un concetto a cui vogliono pensare il più tardi possibile, per altri invece il ritiro dalle competizioni può costituire un momento tanto atteso, per ragioni legate alla presenza di eccessive pressioni esterne oppure a causa della tanta fatica mentale e fisica accumulata nel tempo. Questi fattori molto frequentemente sono alla base dell’ abbandono della propria carriera e fanno insorgere nell’ atleta il desiderio di spingersi in nuove “avventure”.
Non tutti gli atleti però riescono ad affrontare serenamente la conclusione della propria carriera agonistica e faticano ad intraprendere una nuova vita “normale”.
Ciascuna esperienza di ritiro è differente a seconda delle caratteristiche individuali dell’atleta, delle influenze del suo contesto e del momento storico della carriera in cui si trova.
Ci sono sportivi che sono costretti a lasciare la propria carriera a causa di infortuni o malattie; molti atleti che, a causa della loro età e raggiunti determinati livelli, non sono più fisicamente in grado di competere; in altri casi invece si tratta di atleti che decidono per scelta personale di interrompere la loro carriera ed intraprenderne una nuova, come è stato per Alice Canclini. Se vuoi saperne di più sulla sua scelta clicca qui.
Diverse ricerche evidenziano che gli atleti che rientrano nelle prime due categorie possono riscontrare maggiori difficoltà ad adattarsi alla loro nuova vita.
La fine della carriera comporta infatti numerosi cambiamenti radicali nella vita personale, sociale e professionale dell’ ex-sportivo influenzando fortemente gli individui a livello cognitivo, emotivo e comportamentale. Alcune ricerche hanno dimostrato come questo momento critico possa far insorgere negli atleti reazioni emotive dolorose che possono persino condurre alla depressione. Diversi studi riportano che il 20% degli atleti in attività soffre di depressione e che tale percentuale sale al 50% se si considerano anche gli atleti che hanno concluso la propria carriera.
La carriera di un atleta professionista ha una parabola decisamente differente rispetto a quella di un normale lavoratore. Essa infatti inizia molto presto ( la maggior parte degli atleti fa il suo exploit attorno ai 20 anni ) e termina purtroppo in una fascia precoce d’età ( compresa tra i 35 e i 40 anni nella stragrande maggioranza degli sport ).È in tale condizione che l’atleta si trova a dover ricominciare da zero la propria vita, quella che era la vecchia routine viene stravolta .
Secondo la teoria dei livelli logici di Robert Dilts, l’identità di una persona fa riferimento al modo in cui percepisce se stesso. Tutti noi assumiamo diverse identità a seconda del ruolo che ricopriamo in una determinata circostanza, ma tra tutte una è sempre dominante rispetto alle altre. Nel caso della persona in cui il ruolo di atleta professionista prevale, è possibile che possa andare incontro ad eventuali crisi di identità quando questo ruolo principale viene a mancare. Un senso di vuoto e di smarrimento viene sperimentato da queste persone che trovano difficoltà nel dover cominciare a fissare i propri obiettivi di vita diversi da quelli sportivi.
Oltre a fattori psicologici, l’equilibrio fisico degli ex-sportivi è influenzato anche da fattori biologici, la mancanza di dosi regolari di serotonina e adrenalina in circolo nei corpi di atleti causerebbe un grande sconvolgimento nell’ organismo causando problemi nella qualità del sonno e nella risposta fisiologica a situazioni di stress.
Affrontare la crisi individuando nuove risorse grazie all’aiuto dello psicologo dello sport
Diviene quindi necessario superare questa crisi per essere in grado di intraprendere una nuova strada e fissare nuovi obiettivi da raggiungere con lo stesso impegno e determinazione con cui affrontarono le loro sfide personali in ambito sportivo.
Riducendo l’ identificazione esclusiva con il proprio “Io sportivo” e attribuendo una maggior importanza alle altre proprie potenzialità, l’atleta può limitare la possibilità di crisi dopo il ritiro dallo sport; lo sviluppo di altri interessi e attività extra-sportive ed anche l’acquisizione di tecniche per la gestione dello stress, possono costituire uno strumento fondamentale per affrontare questa transizione.
La figura dello psicologo sportivo, svolge quindi un ruolo cardine nella fase di abbandono della carriera sportiva, in quanto:
- fornisce un valido supporto per superare la crisi di identità aiutando l’atleta a interiorizzare una nuova visione di sé che parta dal riconoscimento delle proprie risorse extra sportive;
- offre sostegno psicologico in relazione all’emotività che accompagna l’evento;
- supporta l’atleta nei processi comunicativi verso l’esterno;
- aiuta l’atleta a definire nuovi obiettivi e a disegnare il percorso per raggiungerli.
da Veronica C. Bertarini | Nov 17, 2022 | MENTAL COACHING
Lo stress è una reazione fisiologica del nostro organismo e non necessariamente costituisce un fattore negativo, anzi, in molte occasioni esso rappresenterebbe una spinta a reagire a determinate situazioni, uno stimolo a fare meglio, oltre che una carica in più fondamentale per evitare pericoli.
Uno stress intenso, duraturo o non gestito però può aver gravi conseguenze sulla salute psico-fisica dell’ individuo.
Eustress e Distress
Lo stress viene definito positivo quando, ad esempio, aiuta a concentrarsi per un esame, dá la carica per affrontare una competizione sportiva o un nuovo lavoro. Questo tipo di stress viene denominato eustress.
Lo stress negativo invece è un tipo di stress che perdura nel tempo e di fronte al quale non si è in grado di affrontare la situazione che lo ha causato; in questo caso possiamo parlare di distress.
Ciascuna persona reagisce attraverso diverse modalità di coping ad un evento potenzialmente stressante. Semplificando, persone con uno stile di pensiero rigido e pessimistico reagiranno in modo più negativo rispetto ad una persona che ha un modo di pensare più ottimistico e flessibile.
Il sistema nervoso, di fronte ad un evento potenzialmente pericoloso, reagisce attivando una modalità di risposta chiamata “fight or flight” (combatti o fuggi). In presenza di un evento stressante, infatti , il sistema nervoso si attiverebbe prontamente favorendo il rilascio di alcune sostanze ormonali, i cosiddetti ormoni dello stress quali adrenalina, noradrenalina, cortisolo, i quali sarebbero responsabili delle modifiche fisiche e comportamentali che permetterebbero all’ organismo di affrontare e superare il pericolo.
Adrenalina e noradrenalina avrebbero il ruolo di determinare un aumento del battito del cuore, del respiro e dello stato dell’ attenzione, predisponendo in questo modo l’ organismo all’attacco o alla fuga. Il cortisolo invece sarebbe responsabile dell’ aumento del rilascio nel sangue di glucosio e lipidi che fornirebbero l’energia necessaria a sostenere la reazione di attacco o fuga e ridurrebbe anche l’azione di alcune funzioni del corpo considerate in quel momento non indispensabili, come la digestione e la riproduzione, al fine di dare sostegno ad altri organi, tra cui il cervello. I livelli di tali ormoni tornerebbero normali una volta cessata la minaccia. È in questo caso che si parla di stress acuto (ossia che inizia e termina rapidamente) .
Quando invece lo stress è persistente, il livello di produzione degli ormoni rimane elevato portando ad una condizione di stress cronico, il quale provocherebbe disturbi sia psicologici, come ansia, depressione, stanchezza, irritabilità e disturbi del sonno, sia fisici, come ipertensione, malattie cardiache, obesità e diabete.
In particolare, lo stress acuto sarebbe una risposta immediata del corpo ad una minaccia, uno spavento o una forte emozione e si verificherebbe in un periodo di tempo limitato. In determinate circostanze questo tipo di stress può essere stimolante e motivante come avviene, ad esempio, quando si deve affrontare un esame o una gara sportiva.
Solitamente un singolo episodio di stress acuto non causa problemi all’ individuo, ad eccezione di episodi di stress acuto grave, come ad esempio subire o assistere ad un atto di violenza che potrebbe provocare gravi problemi di salute mentale, come un disturbo post-traumatico da stress.
L’ esposizione prolungata a fattori di stress invece, come ad esempio un matrimonio infelice, rapporti conflittuali, o situazioni lavorative non gratificanti, causerebbero un continuo aumento cronico degli ormoni dello stress, il cui livello rimarrebbe costantemente alto nel tempo con il rischio di provocare, come già scritto precedentemente, gravi conseguenze tra cui insonnia, malattie autoimmuni, tumori, disturbi dell’ alimentazione etc.
La ricerca di Harvard: le tre zone dello stress
Un gruppo di ricercatori di Harvard ha condotto uno studio che descrive molto bene tre differenti zone dello stress.
Questi dimostrarono che quando lo stress è eccessivo e perdura nel tempo può portare a disturbi che ostacolerebbero il perseguimento degli obiettivi e impedirebbero la realizzazione e il benessere della persona.
Per dipingere un quadro completo però, questi autori riportarono che anche un livello eccessivamente basso di stress, o di pressione, porta ad effetti finali analoghi a quelli dello stress sproporzionato.
Le due zone descritte sono anche chiamate “zone di paralisi”, e sono caratterizzate dallo stress negativo. In queste due zone verrebbero disattivate tutte le virtù necessarie per dare impulso alla creatività e al cambiamento, generando stati emotivi e fisici negativi, che a lungo andare si possono trasformare in gravi patologie.
La prevenzione dello stress
Non sempre è possibile prevenire lo stress, nonostante ciò ci sono molti accorgimenti che permetterebbero di gestirlo in maniera più efficace. In primo luogo è importante saper identificare la causa che avrebbe scatenato l’ insorgere dello stress e le sensazioni che lo accompagnano.
Effettuare esercizi di respirazione profonda e controllata, provare tecniche di rilassamento, svolgere regolarmente un’ attività fisica e molti altri sono metodi rilevatisi utili per ridurre l’ effetto dello stress.
Diversi studi infatti dimostrano come, per gestire lo stress, possa essere molto utile fare ricorso a tecniche di rilassamento. Grazie a queste tecniche sarebbe possibile apprendere strategie finalizzate a ridurre l’attivazione psicofisiologica e scaricare le energie in eccesso accumulate nell’organismo, aumentando in parallelo la centratura dell’individuo. Questo favorirebbe la consapevolezza che le proprie risposte corporee sono, almeno in parte, controllabili e gestibili, senza esserne sopraffatti.
Anche il focus sul respiro è sicuramente una delle tecniche da prendere in considerazione. L’ansia e lo stress infatti innescano una errata respirazione, stimolando il sistema nervoso autonomo. La respirazione diaframmatica è un tipo di respirazione che può essere appresa al fine di apportare all’organismo maggior ossigeno e maggior benessere.
Un percorso di sostegno psicologico potrebbe invece aiutare l’ individuo a prendere consapevolezza delle emozioni alla base della propria risposta stressogena; l’individuo, una volta individuate le cause che portano ad un eccessivo accumulo di stress, avrebbe la possibilità di lavorare con il supporto di uno psicologo, al fin di migliorare la propria qualità della vita.
La gestione dello stress attraverso il Biofeedback
Tra le altre varie tecniche che vengono utilizzate per la gestione ed il controllo dello stress, il Biofeedback risulta efficace nel 90-95% dei casi. Il biofeedback si caratterizza per essere un metodo non invasivo, non farmacologico e privo di effetti collaterali.
Lo scopo di questa tecnica sarebbe quello di permettere alle persone di imparare a regolare le proprie funzioni corporee migliorando la propria salute e le proprie prestazioni.
Il biofeedback dunque costituisce uno strumento che permette all’individuo di effettuare un’interpretazione più appropriata delle proprie sensazioni corporee, di autoregolarle e di raggiungere il mantenimento del controllo nell’ambiente naturale in assenza di feedback. Esso, nel caso dello stress cronico, è mirato a modificare le reazioni abituali allo stress che causano sofferenza e dolore.
da Veronica C. Bertarini | Ott 11, 2022 | MENTAL COACHING
In psicologia fisiologica il temine arousal indica l’ attivazione psicofisiologica di un organismo che avviene quando si è chiamati ad affrontare una performance sportiva.
Cosa accade prima di una prestazione sportiva al nostro organismo?
Innanzitutto avviene un aumento della vigilanza e dell’ attenzione grazie all’ attivazione del sistema nervoso centrale; i muscoli si preparano allo sforzo grazie all’ attivazione del sistema muscolo-scheletrico; grazie all’ attivazione del sistema vegetativo simpatico vi sarebbe un’ attivazione di cuore e polmoni al fine di sopportare lo sforzo.
Ecco quindi che, quella che comunemente chiamiamo ansia da prestazione, non sempre lo è! L’attivazione psicofisiologica è infatti fondamentale per mettere in atto una buona performance. Ma allora, dove sta io confine? Come riconoscere la giusta attivazione dalla troppa attivazione?
La teoria di Yerkes e Dodson: la prima a studiare la relazione tra attivazione psicofisiologica e prestazione sportiva.
Di questo abbiamo già parlato in un altro articolo, tuttavia vale la pena ricordare anche qui la teoria della U invertita sviluppata da R.M. Yerkes e J.D. Dodson, due psicologi di Harvard che per primi studiarono la relazione tra l’arousal e una specifica prestazione.
In questo modello concettuale viene ipotizzato che tale rapporto sia di tipo curvilineo e assuma appunto, la forma di una U capovolta. La legge postula che ad un aumento dell’ attivazione vi sarebbe anche un aumento della prestazione, ma solo fino ad un certo livello, superato il quale, la prestazione inizierebbe a diminuire.
Detto in altri termini quindi, la prestazione ottimale si otterebbe al raggiungimento di un livello intermedio di arousal.
Ad un livello di attivazione basso ( ipoattivazione) la prestazione corrispondente sarà a sua volta bassa e l’ individuo si trova in una situazione di distress. In tale condizione l’ atleta è “scarico”,viene a mancare la motivazione, oppure è possibile che si senta distaccato, fa fatica a concentrarsi e ad entrare nella gara.
La prestazione migliora quando l’ attivazione inizia a crescere e l’ atleta comincia a sperimentare un adeguato livello di stress positivo, indicato con il termine di eustress. In tale situazione l’ organismo è carico di energia mentre il tono muscolare è in grado di eseguire le azioni in maniera efficace e con precisione. L’ atleta in questa situazione dimostra di essere in grado di controllare le proprie azioni concentrandosi in modo ottimale sulla propria attività, sperimentando un senso di auto-efficacia e di benessere.
Quando il livello di attivazione è troppo elevato (iperattivazione) la prestazione dell’ individuo decresce. L’ atleta in questa situazione può sperimentare tensione e rigidità muscolare, la quale provocherebbe una diminuzione della coordinazione e della fluidità del movimento. Tachicardia, sudorazione e un affaticamento precoce, accompagnati sul piano emotivo da stress, ansia e scarso controllo delle emozioni, caratterizzano questo stato vissuto dall’ atleta con elevati livelli di arousal. Anche a livello cognitivo si riscontra una diminuzione della concentrazione e dell’ attenzione.
Conoscere il proprio livello di arousal: il primo passo per una prestazione vincente
Per ogni singolo atleta la conoscenza del proprio livello di arousal e delle sue fluttuazioni durante la prestazione è un aspetto fondamentale.
La capacità di autoregolarsi in prossimità di un evento significativo può essere acquisita attraverso esperienze comportamentali. In un percorso di allenamento mentale infatti, la gestione dell’ arousal viene considerata una delle abilità più importanti che un atleta deve acquisire.
Lo psicologo dello sport ti aiuta ad imparare a gestire il tuo livello di attivazione psicofisiologica prima della prestazione.
Lo psicologo dello sport, attraverso lo strumento del mental coaching, ti aiuta a consapevolizzare e imparare a gestire la tua attivazione pre-gara, lavorando su molteplici aspetti quali:
Imparare a gestire il fattore mentale all’interno della propria performance è fondamentale ed il proprio livello di arousal è sicuramente il primo aspetto chiave da tenere in considerazione.
da Veronica C. Bertarini | Ott 5, 2022 | MENTAL COACHING
Aspetti da conoscere e da non sottovalutare
Il termine stress viene utilizzato in ambito medico e psicologico per indicare situazioni di tensione, affaticamento della persona e disagio che in ambito lavorativo può portare alla sindrome di Bornout. Si parla di “andare in bornout” ( il cui significato italiano equivale a “bruciato”, “scoppiato” ) per descrivere la condizione in cui la persona non è più in grado di fronteggiare in maniera costruttiva tutte le difficoltà che caratterizzano la vita quotidiana.
Cosa ha quindi a che fare con lo sport ?
Il bornout in ambito sportivo è stato concettualizzato più di recente come una “sintomatologia psico-fisica che comprende tre caratteristiche salienti e distinte ma empiricamente correlate, fondamentali per l’esperienza dell’atleta o dell’allenatore nel contesto sportivo”( Raedeke & Smith, 2001).
Le tre caratteristiche in questione sono :
- esaurimento emotivo/fisico associati ad allenamento o competizioni troppo intense.
- ridotto senso di realizzazione con conseguente impossibilità di raggiungere gli obiettivi prefissati.
- svalutazione della prestazione sportiva correlata ad una mancanza di motivazione e partecipazione alle attività.
Nonostante la maggioranza degli atleti che pratica sport soprattutto a livello agonistico sperimenti periodi caratterizzati da stanchezza ed esaurimento, questo non equivale necessariamente alla sindrome del bornout. Dopo lunghi periodi di allenamento intenso è normale per gli atleti, specialmente professionisti, affrontare periodi di stanchezza psicofisica. È dopo brevi periodi di recupero che, nella normalità, si riescono a superare questi momenti e la motivazione e la determinazione riemergono nell’ atleta.
Esiste però una minima percentuale di atleti ( si stima compresa tra l’ 1% e il 2% ), che sperimenta periodi di stress e di esaurimento cronico e questi si rivelerebbero spesso essere la causa di un ritiro parziale o totale dalla propria pratica sportiva .
Quali sono le 5 macro categorie di sintomi associati al burnout sportivo ?
Diversi studi sul bornout hanno identificato 5 macro categorie di sintomi associati a tale sindrome che mostrerebbero come il bornout porti a conseguenze sia su un piano psicologico che fisiologico, compromettendo la salute e il benessere dell’ individuo. In ambito affettivo l’ atleta presenta un umore depresso e dal punto di vista cognitivo egli è pervaso da pensieri autosvalutanti, l’ attenzione e la memoria risultano compromesse. Per ciò che riguarda l’ ambito fisico, i sintomi caratterizzanti l’ atleta affetto dalla sindrome di bornout , sono esaurimento fisico, insonnia, fluttuazioni del peso, maggiori probabilità di infortuni e malattia. Da un punto di vista comportamentale, tipico di questa sindrome è l’assenteismo, l’isolamento sociale e prestazioni scarse. Infine, in ambito motivazionale, la disillusione e il facile abbattimento sarebbero caratteristiche dell’ atleta che vive questa situazione.
Gli studi nell’ambito delle neuroscienze
Ricerche recenti in ambito di Neuroscienze avrebbero evidenziato come negli atleti con maggiore incidenza della sindrome di bornout, vi sarebbe una particolare sensibilità cerebrale che predispone a reazioni di tipo ansioso-depressivo. Tra le diverse ipotesi riguardanti la genesi della sindrome, alcune prendono in considerazione solo fattori di natura psicologica legate ad esempio alla personalità o ad eventuali esperienze traumatiche vissute nel passato , altre sosterrebbero il ruolo fondamentale del contesto ambientale in cui vive l’ atleta e dalla tipologia di sport praticata.
Diagnosi e intervento nel bornout sportivo
Nonostante l’ attività di diagnosi di bornout sportivo non risulti essere di facile realizzazione, l’ identificazione di un’ eventuale insorgenza della sindrome può risultare meno complessa. Comune negli atleti colpiti dalla sindrome è il fatto di iniziare ad avere una serie di prestazioni negative e una scarsa attitudine verso lo sport con anche disturbi a livello fisico ed emozionale. È fondamentale in queste situazioni il ruolo dell’ allenatore, figura che deve essere in grado di scorgere l’ insorgere di queste problematiche ed eventualmente aiutare il proprio atleta facendo riferimento a specialisti.
Lo psicologo sportivo ricopre un ruolo importante non solo nella valutazione, nella diagnosi e nell’ eventuale trattamento, bensì deve anche garantire e promuovere il benessere psicofisico degli atleti e di tutte le persone che appartengono al mondo dello sport, sia a livello individuale che relazionale. Tecniche di gestione dello stress, di rafforzamento cognitivo focalizzato sull’ atleta e strategie volte ad ottimizzare l’ ambiente e le figure significativamente coinvolte si rivelano spesso essere un potente strumento di prevenzione e trattamento .
da Veronica C. Bertarini | Gen 14, 2022 | MENTAL COACHING
In un recente post sul mio profilo instagram @psicologaveronicabertarini vi ho parlato dello stato d’animo denominato “languishing”, strettamente connesso alle chiusure legate alla pandemia: esso si contraddistingue per fiacchezza di sentimenti, gioia che scarseggia, emozioni non pervenute e poca voglia di fare.
E se fosse un atleta di alto livello a provarlo cosa accadrebbe alla sua carriera?
Una minor motivazione risulta essere quanto provato da molti sportivi nell’arco di quest’ultimo anno, e rappresenta uno dei disagi psicofisici maggiori, causati dalla pandemia.
Il rinvio o l’annullamento delle competizioni sportive ha fatto sì che venissero meno gli obiettivi degli atleti. Senza obiettivi chiari, la motivazione fa fatica a mantenere la sua forza, infatti spesso negli atleti sono nati di sentimenti di sconforto e rassegnazione, dettati dal principio “Inutile allenarmi se non ci sono gare”; altri atleti lavorano duramente, preparandosi per una competizione importante che ci sarà per poi scoprire di essere positivi al tampone.
L’incertezza di obiettivi derivante dalla situazione pandemica rischia di minare la motivazione e senza motivazione, manca il motore per le nostre azioni; la motivazione è infatti il perché si inizia un’azione e perché la si mantiene nel tempo.
Due tipi di motivazione: estrinseca e intrinseca.
La motivazione estrinseca implica l’impegno in un certo comportamento in relazione a ricompense esterne, come un risultato o un premio; la motivazione intrinseca, al contrario, si riferisce ad un atteggiamento individuale guidato da ricompense interne piuttosto che esterne. In altre parole, la motivazione ad impegnarsi in un certo compito o attività nasce in questo caso dall’interno dell’individuo, perché si tratta di una cosa di per sé soddisfacente.
Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: in casi come questo per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.
Lavorare sul trovare o ritrovare la propria motivazione intrinseca all’azione sportiva è il primo passo per riaccendere il motore!
Come fare per ritrovare la giusta motivazione?
Provate a rispondere a questa semplice domanda: perché scio/corro/gioco a calcio?
Prima di decidere di abbandonare il tuo sport, solo perché oggi non senti più quello che provavi prima … fermati, respira e trova le risposte alle giuste domande, forse quella fiammella è ancora li da qualche parte.
da Veronica C. Bertarini | Nov 22, 2021 | MENTAL COACHING
“Un rituale o abitudine può essere una parola, un gesto, un’azione o qualsiasi altro segnale che sia stato provato e messo in pratica”
A volte questi rituali affiorano inconsciamente senza una decisione razionale del soggetto, poi nel momento in cui si nota che hanno creato in noi delle sensazioni, hanno sprigionato tante energie e ci hanno fatto raggiungere un risultato eccellente, allora di gara in gara si cerca di riutilizzarli anche se non sappiamo il perché lo facciamo e cosa stiamo facendo , solo per il fatto che funzionano li utilizziamo prima e durante la gara. Possiamo affermare che sicuramente inizialmente le nostre azioni inconsce sono rituali che poi man mano si trasformano in abitudini, in quanto riusciamo a metterli in atto senza esserne pienamente consapevoli, sono diventati parte di noi. Ecco perché anche sui rituali ci si può allenare per creare uno schema mentale che sia lo stesso in qualsiasi situazione, eventualmente distinguendo tra la fase pre gara e quella della gara stessa.
A cosa serve quindi avere una routine? Principalmente ad agire su due meccanismi fondamentali per la performance: la concentrazione il livello di attivazione.
La Concentrazione
Un atleta concentrato sa anticipare quali saranno le sue mosse. La routine pre- gara rappresenta “lo spazio” in cui mente e corpo si fondono, la “bolla” in cui l’atleta si rifugia i pochi istanti prima dello start al fine di entrare in contatto con sé stesso, con le proprie abilità e con le proprie motivazioni più profonde.
Chiaramente la concentrazione è importante sia allenata. Qui trovi qualche esercizio per farlo!
Il livello di attivazione
Per attivazione si fa riferimento ai meccanismi fisici e mentali che preparano il corpo, e la mente, dell’atleta ad affrontare una sfida; poco prima di una gara il cuore accelera il suo normale ritmo, il respiro se non viene controllato e gestito tende a farsi più rapido, la sudorazione in certi casi aumenta… sono tutti segnali di un corpo che si prepara a dare il meglio di sé.
Tuttavia, pensieri negativi ed un dialogo interno disfunzionale possono far si che il livello di attivazione superi la soglia ottimale oltre la quale l’atleta potrà andare incontro ad uno stato definito di ansia pre- gara o, all’opposto, il livello di attivazione potrebbe restare troppo basso.
Se il livello di attivazione è troppo alto, o troppo basso, l’atleta non sarà nelle condizioni di poter dare il meglio di sé; ecco allora che la routine pre-gara interviene per direzionare positivamente il dialogo interno dell’atleta e per preparare il corpo all’esecuzione della performance.
Iniziare a strutturare la tua routine pre-gara è quindi fondamentale per iniziare a lavorare sui meccanismi mentali chiave per lo sviluppo di una buona performance.